Articolo di Valentina Pigmei
Se il polso dell’umore degli abitanti di Gubbio si dovesse misurare attraverso le Osservazioni dei privati cittadini rivolte alla Regione Umbria riguardo il procedimento di Verifica di Impatto Ambientale (VIA) dei due stabilimenti Barbetti SPA e Colacem SPA, ne emergerebbe senza dubbio una storia di quarant’anni di oppressione da parte dei cementifici e della loro “monocultura”. Sono una quarantina le osservazioni depositate sul sito della Regione Umbria dagli “esposti involontari”, comuni cittadini, unitamente a quelle delle istituzioni e delle associazioni (Comune di Gubbio, ISDE, USL, WWF e molti altri). Le osservazioni, purtroppo, sono difficilmente consultabili online sul siro della Regione, ma con il lavoro certosino alcuni membri del comitato civico NOCSS, sono state pazientemente trasferite qui e qui.
Sfogliando alcune delle Osservazioni – tutte incredibilmente accurate e documentate – tanto che da giornalista mi domando come sia possibile che in una cittadina di 30mila abitanti ci siano così tante persone in grado di formulare documenti così ben calibrati tra divulgazione scientifica, aneddoti personali e dati storici – mi è tornato in mente il lavoro di Alessandro Leogrande. Vivo a Gubbio dal 2008 e soltanto dal 2016 in città. Prima di allora vivevo nella Valle del Chiascio, a pochissimi chilometri in linea d’aria dal mastodontico stabilimento Colacem spa, di cui pur non vedendo la sagoma coperta dalle colline, sentivo distintamente la sirena di apertura e chiusura, un suono straniante in una vallata dalla tale bellezza selvaggia. Ci vuole molto tempo prima di conoscere davvero questa città perfetta nella sua immobilità medioevale, circondata dai monti, scavata nella pietra che con la luce s’illumina di una particolare tonalità di rosa. Ci vuole molto tempo prima di conoscerne le fragilità, le preoccupazioni, lo sporco gettato sotto il tappeto. Apparentemente quieta, Gubbio è una città che possiede una forte vocazione all’associazionismo e che sa trasformare la preoccupazione collettiva in protesta, come si evince dal rumore provocato in questi mesi dai comitati e soprattutto da queste dettagliatissime e preziose Osservazioni. Anche se non sono eugubina di nascita e non possiedo una divisa da ceraiola, quello che mi ha spinto ad ascoltare con interesse le proteste cittadine è l’amore sincero per questa città fragile e segnata da anni di “monocultura cementiera” parafrasando proprio la definizione che il compianto Alessandro Leogrande diede di Taranto (in quel caso l’aggettivo era “siderurgica”). Leogrande, giornalista e scrittore tarantino, scomparso prematuramente poco più che quarantenne, è l’autore, tra gli altri, di un libro sulla storia dell’impianto siderurgico più grande d’Italia, “Dalle macerie. Cronache sul fronte meridionale”. Leogrande è riuscito a fare della storia sfortunata dell’Ilva, una vicenda circoscritta a una città, una storia globale e universale. La storia dell’impossibilità di coniugare salute e lavoro: un approccio inefficace e, in fin dei conti, dannoso. «In realtà», dice un medico a Leogrande nel reportage, «si continuano a misurare due valori tra loro incompatibili con un unico metro, mentre invece ciascuno di essi esprime grandezze differenti».
Leggendo l’Osservazione di una cittadina della frazione di San Marco ho ripensato invece “Collasso” di Jared Diamond. Mariella Baldinelli, insegnante in pensione, 68 anni, il marito morto di tumore al cervello a soli 51 anni, ricorda come tutto è cominciato. Ricorda come ha visto scomparire a poco a poco (e nemmeno tanto lentamente) e per sempre, il paesaggio naturale che le era familiare.
«I monti non ricrescono. E poi l’andirivieni continuo dei mezzi pesanti dalla cava al cementificio, passando in mezzo al centro abitato. Fino a quando non fu costruita la variante statale 219, una coltre di polvere imbiancava le case (fra cui la mia) lungo il percorso dei mezzi. Poi arrivò il tempo dell’uso degli pneumatici come combustibile. Le frazioni furono investite da quell’odore acre. “Sì, ma dà lavoro”». Tutto il racconto è intervallato da questa espressione formulare: “Sì, ma dà lavoro”. Una frase che ha realmente accompagnato cittadini di Gubbio come un mantra in questi anni. Jared Diamond è un celebre biologo e geografo americano che ha raccontato il collasso di civiltà a causa del loro intestardirsi a non cambiare le proprie abitudini. «Più lavoro meno alberi! », s’immagina che dicessero gli abitanti dell’isola di Pasqua. “Oggi però un Paese non va in rovina come è successo nell’Isola di Pasqua. Oggi non corriamo più il rischio di declini locali isolati, ma di un declino globale”. Il destino locale di Gubbio o di Padule o di San Marco è importante non perché i Nimby – acronimo di “Not In My Back Yard” che si riferisce ai cittadini preoccupati sono del loro cortile – pensano soltanto a loro stessi, ma perché spostando i cementifici e i loro impianti inadatti a bruciare rifiuti lontano da Gubbio il problema NON si risolve. Anzi questo è a mio avviso il gioco dei populisti, che negando l’esistenza di un problema generale ci invitano a credere che sia sufficiente spostarlo altrove. Diamo retta a Jared Diamond allora, e ascoltiamo i cittadini di questa città fragile e forte, famosa per i riti antichissimi e insieme terra francescana. La transizione verso un’economia sostenibile ci impone di cambiare tre abitudini: generare meno rifiuti, consumare meno energia, e impiegare energia pulita. Per ciascuno di questi obiettivi si deve proporre un piano specifico. La proposta “minestrone” di bruciare i rifiuti per produrre energia, sostenendo che i rifiuti sono “rinnovabili” perché se ne continuano a produrre, è semplicistica e illogica: dunque più rifiuti abbiamo, più pulita sarà la nostra energia? Gli eugubini non ci credono più. Come non credono più che affinché alcuni lavorino sia necessario sacrificare la salute di tutti.
Da qualche giorno, inaspettata, è arrivata la buona notizia: il progetto di Colacem “riguardo la modifica di impianto di produzione di cemento” è stato sottoposto a necessità di VIA (Valutazione di impatto ambientale) per la miglior tutela dell’interesse pubblico. I cittadini sono in attesa di sapere che cosa succederà con l’impianto di Barbetti, ma per il momento è una grande vittoria per gli eugubini che hanno intrapreso questa battaglia.
“I progetti, inerenti rispettivamente la modifica di un impianto di trattamento rifiuti e la modifica di un impianto di produzione di cemento, pur avendo acquisito dai Servizi regionali interessati e da Arpa Umbria pareri di non assoggettabilità a VIA per la mancanza di impatti ambientali significativi e negativi, sono stati entrambi sottoposti a necessità di VIA per la miglior tutela dell’interesse pubblico. Il Servizio regionale, dopo aver effettuato i necessari approfondimenti istruttori, ha ritenuto non superabile la richiesta dell’Autorità Sanitaria Locale di sottoporre i progetti a VIA in quanto meritevoli di ulteriori approfondimenti in ordine ai possibili effetti sulla salute della popolazione interessata. Sulla base dei provvedimenti adottati, le due Società dovranno presentare una nuova istanza di procedura di autorizzazione unica regionale (PAUR) comprensiva di Valutazione di Impatto Ambientale. Fino all’esito favorevole di tale procedura le modifiche progettate non potranno essere realizzate e gli impianti esistenti dovranno essere gestiti nel rispetto delle Autorizzazioni Integrate Ambientali vigenti e del Piano di Monitoraggio e Controllo approvato” (Servizio Sostenibilità ambientale, Valutazioni ed autorizzazioni ambientali – DIREZIONE REGIONALE GOVERNO DEL TERRITORIO).