articolo di Raniero Regni pubblicato sulla rivista on line Centralmente
Un lettore di questa rubrica, un amico intelligente e che ha a cuore le sorti dell’ambiente e delle giovani generazioni, ha osservato giustamente che quando io scrivo, come ho fatto nell’ultimo pezzo, “zero carbonio” non significa “zero crescita”. Credo che abbia ragione. Se non è possibile e nemmeno auspicabile un “capitalismo verde”, che secondo alcuni sarebbe solo un rallentare la velocità e non un cambiare rotta di fronte alla catastrofe annunciata, è però possibile uno sviluppo ecocompatibile, ovvero entro i limiti. Come è stato scritto, “un euro investito nella transizione ecologica produce molti più posti di lavoro dei tanti euro con cui continuiamo a foraggiare le industrie inquinanti” (R. Mastini, Le poste in gioco del Green New Deal, “gli Asini”, p. 23).
È necessario evitare la retorica apocalittica che è doppiamente ingiusta nei confronti delle nuove generazioni. Primo perché usa la paura, che non è un buon educatore per chi attraversa l’infanzia e la giovinezza, secondo perché scarica sulle future generazioni dei figli un conto da pagare per gli errori commessi dai padri. Ma, se vogliamo evitare questa duplice ingiustizia, noi, padri e madri, nonne e nonni, dobbiamo correre subito ai ripari.
Non nascondo le mie simpatie per le analisi di S. Latouche, che da molti anni denuncia i danni dello sviluppismo e dell’occidentalizzazione del mondo. In un suo ultimo testo intitolato Architettura, urbanistica e decrescita sostiene che l’architettura e l’urbanistica contemporanee, invece di considerare il paesaggio come un’immensa opera d’arte vivente, non sono riuscite “a impedire globalmente la decomposizione del tessuto urbano, la cementificazione del territorio, la proliferazione urbana del paesaggio, il propagarsi della bruttezza delle condizioni di vita e la distruzione dell’ambiente, per non parlare del suo clamoroso fallimento nel ridurre il consumo energetico e l’impronta ecologica”. Ma, oltre alle sue brillanti analisi, la cosa che mi ha colpito in quel testo è che il professore emerito di Economia dell’Università di Paris-Sud XI (Orasy) firmi il suo saggio, mettendo come sua qualifica professionale, “obiettore di crescita”. Un’espressione che richiama gli obiettori di coscienza che rifiutavano ai miei tempi di prestare il servizio militare, perché erano contro la guerra e l’uso delle armi.
Così un’economista che si firma obiettore della crescita lo fa perché rifiuta l’idea della crescita illimitata in ogni settore, che caratterizza il modo di pensare di economisti e imprenditori, che è la logica economica che ha prodotto i danni più grandi, non solo alla natura ma anche alla società e a noi stessi. Non può più darsi una crescita per la crescita: produci e consuma sempre di più, che poi alla fine qualcosa di buono verrà fuori. I numeri che salgono in ogni settore non possono rallegrarci più se non sono commisurati ai costi/limiti ambientali. Ci possono far piacere gli aumenti che si sono registrati nell’acquisto di libri o nelle iscrizioni all’università registrati durante la pandemia, così come l’aumento della raccolta differenziata e del riciclo, ma non l’aumento di consumo di suolo. Ci sono aumenti e aumenti, ci sono quelli che vanno nella direzione della transizione ecologica e quelli che vanno in direzione contraria.
Se sai dove si trovano i confini, puoi essere un virtuoso della crescita economica, ovvero puoi tutelare il mondo naturale e, al tempo stesso, incrementare il benessere delle persone. Questa è la scommessa. C’è tutta una economia da inventare in questa direzione e questo è un compito entusiasmante per i giovani. Come ha scritto un docente di Oxford, “se ogni studente di economia avesse iniziato il suo corso di studi con un approfondimento sui confini planetari, il mondo sarebbe senz’altro diverso”.
In questo momento c’è un legittimo desiderio di svincolarsi dai controlli, di togliersi la mascherina dalla nostra bocca e dal nostro naso. Essa ci ha protetto ma ci ha reso difficile respirare, parlare ed esprimerci. Se potremo toglierci la mascherina vorrà dire che la pandemia è stata in gran parte sconfitta. Ma, assieme ad essa dovremmo toglierci la benda dagli occhi. La pandemia non è una parentesi della storia, ma una frattura epocale. Questa parentesi non si chiude, è troppo grande e profondo il fossato scavato. L’emergenza sanitaria può finire, ma quella climatica-ambientale no, non c’è parentesi che la possa arginare. Chi pensa di chiudere la parentesi e di ripartire allo stesso modo di prima si sbaglia. Chi lo pensa lo fa a suo e nostro danno, il mondo non è più lo stesso. La pandemia ci ha dato il tempo per capire che lo sviluppo a cui abbiamo dato vita non è più possibile, che bisogna cambiare rotta e non solo rallentare. Lo shock collettivo che abbiamo vissuto dovrebbe averci aperto gli occhi aumentando la consapevolezza. Non dovremmo mai sprecare una crisi non imparando niente, perché altrimenti il bilancio sarà ben più tragico di quello che abbiamo avuto. Penso alla pandemia come ad uno straordinario amplificatore di una presa di coscienza. Dobbiamo contribuire a produrre conoscenza sulla situazione ambientale ma anche su possibili esercizi di futuro di cui i giovani devono diventare i protagonisti principali, subito.