articolo di Raniero Regni sulla rivista on line Centralmente
11 Luglio 20121
Chi solleva la questione ambientale senza per questo diventare un’attivista ambientalista – e forse dovremmo diventarlo tutti! – non è affatto vittima di un pregiudizio. Anche chi scrive, assieme ai suoi amici, è stato definito come affetto da bias, la parola del lessico psicologico finto-profondo, usata da non psicologi per dire pregiudizio, precomprensione ideologica ostile, carica addirittura di anticapitalismo e di “benicomunismo”. Chi solleva, in ogni situazione, il problema dell’impatto ambientale a cui devono essere sottoposte tutte le scelte che, come individui e come collettività, dobbiamo fare, non è affatto vittima di un pregiudizio. Anzi, questa dovrebbe essere la nuova routine mentale che deve accompagnarci da qui in avanti.
Al contrario, chi fa finta che il problema della minaccia ambientale e quello correlato della minaccia alla salute siano esagerazioni o falsi problemi è vittima di una ben più grave sindrome: la cecità cognitiva. Si tratta di un meccanismo psichico di difesa che si attiva fuori dalla consapevolezza dell’individuo, e ha lo scopo di proteggerlo da stimoli, prospettive, informazioni la cui acquisizione e comprensione potrebbe comportare seri danni per il fragile equilibrio della sua mente. Insomma, guardare ma non vedere.
Il fumo che esce da una ciminiera, che si è sempre visto uscire di lì, lo si vede come normale e finisce per far parte del paesaggio. Non ci si domanda che cosa contiene e che succede alle sostanze che vengono sparate in aria a tonnellate, sostanze sempre più sottili, sempre più insidiose che, con un effetto di accumulo, finisco per compromettere le matrici ambientali che sono la nostra casa. Nella cecità cognitiva il cervello diventa cieco perché si concentra su alcuni aspetti ignorandone altri, seleziona e scarta sin dal momento dell’attenzione alcune evidenze che scompaiono dalla coscienza. Che fine fa un rifiuto quando lo brucio? Non lo vedo più, penso di aver risolto il problema delle discariche e di essere addirittura più virtuoso perché lo uso come co-combustibile. E poi, parliamoci chiaro, comunque il lavoro sporco qualcuno deve pur farlo!
Al contrario, lo scopo ambizioso di questa modesta rubrica vorrebbe essere quello di far aumentare la consapevolezza. Limite e consapevolezza, consapevolezza dei limiti. Guardare, anzi spalancare gli occhi per vedere meglio, e poi capire e, se necessario, prendere posizione.
È convinzione di chi scrive che la pandemia abbia rappresentato qualcosa di più e di diverso dalla terribile minaccia e tragedia sanitaria che è stata ma che abbia una portata mitica, nel senso con cui ne ha parlato A. Baricco. Qualcosa che è servito per dare un volto ed articolazione ad un grido. Quel conato di denuncia, inarticolato fino a questo momento, per gli errori collettivi commessi. Il mito è la modalità che gli esseri umani hanno creato per far fronte ad eventi che li trascendono e li travolgono. Il mito è l’effetto del grido umano di fronte all’inaspettato che diventa storia. Quello che il mito che stiamo vivendo intende dirci è che non possiamo più vivere la vita di prima. L’organizzazione del mondo nella quale siamo vissuti deve cambiare. Ecco che cosa è venuto a dirci l’evento mitico: “spezza le catene dell’inevitabile” e pensa l’impensabile. È la consapevolezza a cui ci richiama da tempo uno dei più grandi scrittori indiani come Amitav Ghosh. La grande cecità, ha intitolato un suo saggio-denuncia, sottotitolo, Il cambiamento climatico e l’impensabile. Studiando gli effetti catastrofici che il surriscaldamento globale provoca su vaste zone costiere dell’India che minaccia l’esistenza stessa di numerose zone costiere della terra, ha spinto la sua analisi domandosi come mai la cultura ed anche la letteratura contemporanee non aprano gli occhi sul cambiamento climatico. Quando verrà scritta la storia del nostro tempo ci si domanderà stupiti come la stessa arte non abbia saputo denunciare ma anzi abbia contribuito ad occultare quello che stava accadendo al mondo. “E allora – scrive Ghosh – questa nostra epoca, così fiera della propria consapevolezza, verrà definita l’epoca della Grande Cecità”.
Ma, se per il palato dei lettori di queste righe l’osservazione è troppo ostica, se per altri il continuo martellare di questa rubrica sul fatto che il mondo non sarà più come prima, ma che ci sarà un prima e un dopo la pandemia, basti quello che scrive “The Economist” nell’ultimo numero, “due cose sono chiare: che l’ultima fase della pandemia sarà lunga e dolorosa e che il Covid-19 lascerà un mondo diverso”.