articolo di Raniero Regni sulla rivista on line Centralmente (in via di pubblicazione)
29 Agosto 2021
Tutti lo ricordiamo, anche se tutti forse vogliamo buttarci quei tempi dietro le spalle. Era il 27 marzo 2020, nel cuore di tenebra della pandemia. Un uomo solo, vestito di bianco, prega sotto la pioggia, in una piazza S. Pietro deserta e fredda. Quell’uomo era Papa Francesco, forse l’unico leader mondiale capace, con le sue parole e suoi gesti, di far fronte alla crisi che l’umanità stava e sta attraversando. Quell’uomo non faceva solo fronte alla crisi pandemica ma anche alla più ampia e grave crisi climatica e ambientale, che è in fondo una crisi antropologica.
Nel 2015 aveva scritto un testo fondamentale, la lettera enciclica Laudato sì’ sulla cura della casa comune (e poi il 4 ottobre 2020 presenterà ad Assisi l’altra enciclica, complementare alla Laudato si’, la Fratelli tutti).
Anche chi scrive non aveva colto la portata epocale di quel testo. Forse c’è voluta la chiusura dovuta al pericolo del virus per far emergere una coscienza tale da far apprezzare appieno il testo papale. Ma questo non è forse accaduto solo a me ma è accaduto persino alla Chiesa intera nel suo complesso, non aver compreso la precisione concettuale e la forza profetica del documento. È stato notato che il 2015 è stato un anno decisivo per la presa di coscienza dei cambiamenti climatici perché è stato l’anno in cui si è svolta anche la conferenza internazionale di Parigi che si è conclusa con l’accordo per contrastare il cambiamento climatico. Ma mentre il testo dell’accordo, pur portando dei numeri precisi e vincolanti rispetto alle emissioni di sostanze climalteranti come il CO2, era scritto in un linguaggio burocratico, frutto di infinite limature e compromessi e quindi reticente, il documento del Papa era lucido e preciso nel linguaggio e chiamava le cose con il loro nome. A. Ghosh, il grande scrittore indiano, ha detto che il diverso stile era dovuto anche al fatto che le due opere erano state scritte, “una da un ex-insegnante di letteratura, l’altra da una moltitudine di diplomatici e delegati”.
Con sobrio coraggio il testo papale individua le cause della crisi climatica e ambientale che si presenta come la più grande sfida che l’umanità intera deve urgentemente affrontare. Senza nessuna retorica verde, analizza i rapporti non semplici come quelli tra il Cristianesimo e la natura, la preoccupazione umana per la natura, la giustizia verso i poveri, l’impegno nella società e la pace interiore, la giustizia climatica. Nonostante l’accessibilità linguistica e la semplicità francescana (cosa assolutamente diversa dalla sempliciotteria fratesca), non è possibile darne conto qui. Invitando alla lettura diretta del testo, procedo per suggestioni. La Terra non è dell’uomo ma è un dono di Dio. Noi non siamo i proprietari del pianeta. La versione per cui Dio avrebbe consegnato agli umani tutte le creature della Terra per dare loro un nome, che sembrerebbe legittimare una superiorità umana sul resto del creato, ignora che nel Genesi, dare il nome alle cose, nel linguaggio biblico, vuol dire prendersi cura delle cose a cui si dà un nome. E sempre nella Bibbia, nell’episodio della torre di Babele, i superbi costruttori della torre che dicono “facciamoci un nome”, vogliono crearsi da sé, conquistare le cose invece di custodirle, farsi un nome dominando il mondo.
Anche l’antropocentrismo cristiano viene riportato alla sua giusta dimensione, per cui tutti i viventi sono creature di Dio, e questo era anche il senso di fratellanza creaturale di S. Francesco. Non possiamo saccheggiare impunemente il creato per uso e consumo umano. È necessaria una “conversione ecologica”. Che cosa vuol dirci il Papa con questa espressione? Dobbiamo tutti diventare attivisti ambientalisti? Forse ci viene chiesto qualcosa di più. Dobbiamo innanzitutto ripensare e cambiare stili di vita, modelli di consumo e di produzione, strutture consolidate di potere. Il nostro modo di vivere può sfociare solo in catastrofi. Certo, se il modello è Francesco d’Assisi allora dovremo preoccuparci della cura di ciò che è debole, delle creature più indifese. Dobbiamo diventare capaci di porre un limite alla nostra avidità, perché ci sono dei limiti inviolabili, perché il mondo è un mistero e non un problema da risolvere e ci sono valori che eccedono qualunque calcolo economico. Come la tecnica ha bisogno di un’etica, così l’economia ha bisogno di una politica.
Accenno solo ad altri due temi che sicuramente dovremo riprendere in futuro. Gli obiettivi ecologici si possono raggiungere solo mettendo in discussione il paradigma tecno-economico, il cui scopo ultimo è il dominio, fa prevalere il ruolo dei mezzi sui fini e il profitto su ogni altra dimensione. Questo paradigma è distruttivo ed autodistruttivo. A questo paradigma se ne contrappone un altro, il paradigma ecologico, per cui lo scopo finale delle alte creature non siamo noi; l’ambiente è un bene comune. Ma non c’è ecologia senza un’adeguata antropologia. All’antropocentrismo non deve essere sostituito un semplice biocentrismo, ovvero la Terra senza l’uomo. Qui entra in campo la rivoluzione spirituale, questa è l’ecologia integrale che riguarda l’ambiente, l’esterno dell’essere umano, tanto quanto il suo interno, riguarda il singolo ma soprattutto la collettività, comprese le generazioni future. Una sana relazione con il creato è in rapporto con una sana relazione con se stessi, in fondo il peccato stesso non è che una rottura dei rapporti con la natura, con Dio e con il prossimo.
L’invito del Papa è straordinario, nelle parti e nel tutto, come quando dice – e sembra quasi riferirsi alla tematica, che più volte abbiamo sollevato in questa rubrica, relativa ai rifiuti come combustibili – “c’è bisogno di sincerità e verità nelle discussioni scientifiche e politiche, senza limitarsi a considerare che cosa sia permesso o meno dalla legislazione”.
Qui finisce l’articolo ma comincia la lettura della Laudato si’. Un testo che va riletto e su cui torneremo ancora.