articolo di Giovanna Nigi pubblicato su Micropolis
8 Ottobre 2021
Quello che vi proponiamo questo mese è la ricomposizione di un mosaico. Le tessere ce le fornisce un cittadino eugubino, da sempre attento alle questioni relative a cave e a cemento fin dalle vicende di Acquasparta – che ebbero conseguenze penali – negli anni Settanta del secolo scorso e che sta cercando da tempo di mettere in ordine certosino tutti i frammenti che lo compongono.
La prima tessera da cui partire è il decreto Clini, l’ex ministro dell’ambiente del governo Monti. Il provvedimento di legge ha equiparato il CSS (combustibile solido secondario) al CDR (combustibile da rifiuti), sdoganando una volta per tutte l’incenerimento dell’immondizia, facendola assurgere ai fasti di combustibile a tutti gli effetti.
Il 26 marzo di quest’anno il nostro è stato condannato in primo grado a 6 anni di reclusione per corruzione aggravata.
Il secondo tassello è Gubbio. La città non si trova in un posto qualunque, tanto per fare un esempio in Tunisia, dove nel raggio di 20 chilometri non ci sono insediamenti abitativi, ma in Italia, in una conca dove insistono due cementifici, stabilimenti che, come è noto, sono classificati ad alto inquinamento ambientale.
Bruciare immondizia nei cementifici per abbassare i costi e massimizzare i profitti, a danno di salute ed ambiente
Le due cementerie di Gubbio da sole sono in grado di bruciare oltre centomila tonnellate l’anno di rifiuti, a fronte delle centocinquantamila di Css che si producono ogni anno in Italia. Qualche domanda “retorica” non è fuori luogo. In nome di cosa i cittadini di Gubbio e dei comuni limitrofi devono pagare, come fanno da 60 anni, un prezzo tanto alto, rischiando la loro la salute? Perché Gubbio deve diventare il collettore che ripulisce e supera tutti i problemi dell’immondizia e della raccolta differenziata, bruciando non importa cosa? Si cerca di convincere i cittadini che bruciare CSS fa emettere quantità di CO2 inferiori a quelle del pet coke (cosa perlomeno dubbia, anche perché il pet coke non verrebbe abbandonato del tutto). Eppure, è noto che in natura nulla si crea e nulla si distrugge, ma tutto si trasforma. In questo caso In cibo, aria e acqua inquinati.
Vale per tutto quello che si brucia e a tale proposito è bene ricordare che dell’immondizia che vogliono bruciare, solo una parte sarà trattata nella zona a 1500 gradi del bruciatore primario, mentre la gran parte passerà nel bruciatore secondario (o zona di calcinazione) a soli 880 gradi, emettendo ancora più inquinanti. E’ altrettanto noto che in Italia vivono e prosperano le ecomafie che si arricchiscono sui rifiuti. Di recente il procuratore Cantone a margine di una audizione da parte della Commissione d’inchiesta su criminalità organizzata e infiltrazioni mafiose nella regione, ha parlato di una regione a rischio per quanto riguarda le infiltrazioni nell’economia e ha aggiunto che “ il rischio è che nella fase pandemica questi segnali possano diventare più significativi”. Secondo l’ex Commissario alla corruzione “sul tema dei rifiuti esiste un maggiore rischio di infiltrazione.
C’è un tessuto del territorio che consente attività illecite in questo settore. Si tratta di un ambito nel quale – ha concluso – i rischi che qualcuno possa approfittarne dall’esterno sono molto significativi”. Da ciò nascono molteplici dubbi. Le richieste di procedura di VIA per Colacem e quella della Via a proposito della Maiotec, azienda specializzata nel trattamento dei rifiuti speciali, avvenute a pochi giorni l’una dall’altra, creano qualche sconcerto. È perlomeno curiosa, questa concomitanza, dato che una società lavora per l’altra. Altrettanto singolare è la vicenda dell’azienda trasporti Caturano che da Caserta trasportava rifiuti che sono stati bruciati a Ghigiano nella camera di transizione.
Ancora una riflessione. La Colacem, negli ultimi due anni è passata, nel mercato nazionale, dal 12% al 18%, realizzando il 50% in più di fatturato annuo che corrisponde a ulteriori 150 milioni euro.
Tutto ciò va collocato nell’attività della Financo, la finanziaria che controlla le attività del gruppo. Nell’assembla dei soci, che ha approvato il bilancio 2020 il 19 luglio di quest’anno, il fatturato complessivo è passato dai 523,5 milioni del 2019 ai 536,2 del 2020. Il margine operativo lordo è cresciuto da 101,3 a 106,1 milioni. Gli utili avrebbero raggiunto i quasi 20 milioni. Un risultato, a quanto si dice nella relazione agli azionisti, inaspettato. Scorporato per settori il ricavato proverrebbe per il 76% dalla divisione cemento, il 21% da quella calcestruzzo e il 3% dalle attività non core. Il fatturato per il 58% è stato realizzato in Italia ,il restante 42% all’estero.
Insomma, l’azienda va bene, sembra aver superato la crisi derivante dal crollo dell’economia mondiale e italiana dopo il 2007. Peraltro, la vecchia cava di San Marco, a qualche chilometro dal cementifico, è ormai esaurita, e si ha intenzione di incentivare l’attività della cava di Petazzano, dalla parte opposta del territorio del Comune di Gubbio (forse qualcuno ne ricorderà il nome: appena poche settimane fa l’area è stata protagonista di un incendio di natura presumibilmente dolosa), dove c’è ancora molto calcare da estrarre, molti alberi da abbattere, molta natura da distruggere. La percorrenza dei camion sarebbe 4/5 volte superiore. Sarebbe così necessario mettere in campo un centinaio di autotreni al giorno, con una significativa lievitazione dei costi.
La tessera successiva è che da decine di anni i due cementifici eugubini non hanno investito un soldo in soluzioni atte a ridurre le emissioni inquinanti. L’impianto di Ghigiano rispetto a quello di Barbetti, a parità di produzione, è energicamente più “onnivoro” di oltre il 10%. Barbetti, dal canto suo, può mettere sul piatto oltre 40 anni di tecnologia…superata, mai ammodernata. La doppia torre a cicloni serviva essenzialmente a raddoppiare la capacità produttiva. Eppure, nella produzione di cemento, si sono fatti passi significativi che consentono di ridurre in modo importante le emissioni di CO2. D’altro canto, Gubbio, che un tempo poteva fregiarsi del fiero aggettivo di Libero Comune, oggi è suddita e divisa in fazioni, risvegliata dal suo torpore a comando, da proposte di chiusura delle Logge dei Tiratori o da tunnel sotterranei che vorrebbero “intalpare” la città in nome del solito feticcio della crescita e del principio di spremitura a esaurimento della città e del territorio. Il tutto con i finanziamenti della Fondazione Cassa di Risparmio, ossia a spese e a carico dei cittadini -correntisti.
C’è poi la questione del Comune di Gubbio, che non ha soldi per lastricare decorosamente le vie del centro storico ed è costretto ad asfaltarle. Un Comune che, nonostante la vocazione turistica della città, non riesce nemmeno ad avere una scuola alberghiera o quanto meno un distaccamento, una sede periferica. L’amministrazione, inoltre, è in forte difficoltà per la questione delle acque reflue che non sa come risolvere. Si è registrato nell’acqua un forte contenuto di cromo esavalente che sembra non dipenda dalla discarica, mentre vi sono ragionevoli dubbi che sia dovuto alla produzione di cemento Insomma, una amministrazione con rilevanti difficoltà a cui non vuol aggiungere quelle che deriverebbero dall’uso del CSS.
Allora scatta un sotterraneo ricatto se 100 lavoratori perderanno il posto sarà colpa del Comune e dei Comitati. Si tratta di uno scaricabarile già sperimentato in passato a proposito di ridimensionamenti e licenziamenti e di chi ne aveva la responsabilità. E’ lecito sospettare che l’acquisto nel 2018-2019 di alcuni impianti Cementir di Italcementi – Heidelberg , tra cui quello di Spoleto, oggi chiusi, rientri in tale quadro? E’ un caso che l’impianto di cemento bianco di Ghigiano sia stato dato in gestione a Italcementi che ha provveduto, data la sua pericolosità a chiuderlo. E’ il caso del “Giornale dell’Umbria”. Andava male, è stato venduto e successivamente il compratore ha provveduto a chiuderlo.
A facilitare le risposte potrebbe essere il processo che inizierà a breve che vede come imputata per corruzione e divulgazione di segreti d’ufficio la dottoressa Antonella Duchini, ex procuratore aggiunto a Perugia, che coinvolge oltre 350 testimoni e in cui è stato rinviato a giudizio Carlo Colaicovo, che secondo l’accusa avrebbe avuto un rapporto privilegiato con la magistrata.
Ancora. Il ponte Morandi e altri viadotti crollano in Italia per la cattiva qualità del cemento. Non è sempre stato così. Nel territorio dell’Eugubino basta guardare il calcestruzzo che tiene ancora insieme in modo egregio le strutture delle miniere di Branca, costruite circa cento anni fa. Ma non basta. Nel quadro che stiamo ricomponendo c’è un altro protagonista: l’Arpa, l’agenzia che dovrebbe monitorare l’inquinamento del territorio, autorizza i due cementifici a disconnettere le centraline di controllo in caso di disservizio tecnico, quindi è normale inquinare! E non vengono controllate le diossine e i derivati, né i valori del cromo esavalente.
È noto che dai sali del cloro, del fluoro e del fosforo, nelle giuste condizioni di umidità e temperatura. si generano acidi. Nulla riguardo a tali processi è stato mai controllato e, grazie a questi disservizi, è stato possibile perfino far diventare bianco il cemento di Gubbio!
Chiamarsi fuori: scambiare chiusure e licenziamenti con altre imprese e scaricare le proprie criticità sugli oppositori
Negli ultimi dieci anni la domanda di cemento nazionale si è dimezzata e allora invece di lavorare 6 mesi l’anno si preferisce lavorarne 12 a Rassina (95 km. Da Gubbio) per poter bruciare qui il CSS, fermando la produzione di clinker a Ghigiano per poterne dare la colpa a chi si oppone all’incenerimento dei rifiuti (Comune e comitati).
Ci fermiamo qui. Il mosaico non è completo, ma comincia ad essere intellegibile e disegna un quadro in cui politiche aziendali, volte a massimizzare a tutti i costi i profitti, si coniugano con pratiche non sempre ortodosse e con una volontà di controllo della città e del territorio. Quello che emerge, insomma, è un quadro viscido: intese tra i produttori nazionali, proiezione di quell’accordo di cartello sui prezzi che ha provocato sanzioni da parte dell’agenzia per la concorrenza, rapporti ambigui con settori della magistratura, una volontà di controllo della città e del territorio. D’altro canto, la questione del CSS viene presentata come operazione di difesa dell’ambiente pretendendo, come assunto, che il combustibile solido secondario diminuisca le emissioni di CO2 (non è forse questo che sancisce la legge?). In realtà si tratta di una pura operazione di riduzione dei costi e di massimizzazione dei profitti.
Se si brucia CSS si ottengono i rimborsi destinati allo smaltimento dei rifiuti erogati dalle Regioni, il CSS non costa, le emissioni da CSS non vengono considerate nel calcolo del CO2 immesso nell’aria. Da qui il ricatto: o mi fate bruciare quello che voglio o la prosecuzione dell’attività produttiva è a rischio! A differenza di una volta però, malgrado la cedevolezza dei sindacati, lo scambio salute- lavoro non sembra funzionare più e il rispetto nei confronti dell’impresa sta progressivamente calando. Fermo restando che chi ne ha il dovere dovrebbe sempre controllare.
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