sentenza n.01920 del Consiglio di stato del 31 agosto 2023 (Unicem Buzzi)

publicato il 31/08/2023

l’ originale si puo’scaicare qui:

https://www.giustizia-amministrativa.it/portale/pages/istituzionale/visualizza/?nodeRef=&schema=cds&nrg=202301920&nomeFile=202308094_11.html&subDir=Provvedimenti

 

  1. 08094/2023REG.PROV.COLL.
  2. 01920/2023 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 1920 del 2023, proposto da Buzzi Unicem S.r.l. (Già Buzzi Unicem S.p.A.), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Gianluigi Pellegrino, Claudio Vivani, Elisabetta Sordini, con domicilio digitale come da Pec da Registri di Giustizia;

contro

Regione Lazio, in persona del Presidente della Regione pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato Teresa Chieppa, con domicilio digitale come da Pec da Registri di Giustizia;

nei confronti

Città Metropolitana di Roma Capitale, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato Giovanna De Maio, con domicilio digitale come da Pec da Registri di Giustizia;

e con l’intervento di

ad adiuvandum:
Aitec – Associazione Italiana Tecnico Econo-Mica del Cemento, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato Arturo Cancrini, con domicilio digitale come da Pec da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Roma, piazza San Bernardo n. 101;

per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio n. 16385/2022.

 

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio di Regione Lazio e di Città Metropolitana di Roma Capitale;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 8 giugno 2023 il Cons. Luigi Furno e uditi per le parti gli avvocati come da verbale;

 

FATTO

  1. BUZZI UNICEM S.p.A gestisce una cementeria in Guidonia Montecelio.

La società ha presentato alla Regione Lazio in data 11 gennaio 2022, ai sensi dell’art. 29-nonies del d. lgs. n. 152/2006, istanza di modifica dell’A.I.A per l’“introduzione del Combustibile Solido Secondario qualificato come “end of waste” in quanto conforme ai requisiti del Decreto Ministeriale 14 febbraio 2013, n. 22 (di seguito CSS—C, per distinguerlo dal CSS qualificato come rifiuto, di seguito CSS), da impiegarsi nell’impianto di cottura clinker (punto di emissione E11) dello stabilimento di Guidonia in parziale sostituzione dei combustibili fossili ad oggi impiegati (pet coke e carbon fossile) e nel rispetto delle condizioni di cui al citato comma 3 dell’art. 35 del DL. 77/2021”, muovendo dal presupposto per cui la modifica in esame rientra nella fattispecie della modifica “non sostanziale”, di cui all’art. 35 della legge n. 108 del 29 luglio 2021, articolo 35 comma.

Il progetto di modifica prevede la realizzazione di una nuova unità impiantistica per il ricevimento, lo stoccaggio e il dosaggio del CSS-C prodotto, al punto di emissione E11 “Forno + Mulino crudo”, che verrà integrata agli impianti esistenti e con incremento da 12 a 15 dei viaggi giornalieri per il trasporto allo stabilimento.

Con nota prot. n. 82906 del 27 gennaio 2022, la Regione Lazio ha richiesto, ai sensi dell’art. 3, comma 3, del regolamento regionale n. 21/2021 (adottato con D.G.R. n. 736 del 9 novembre 2021) il supporto tecnico di ARPA Lazio, ai fini della valutazione in ordine al carattere “sostanziale o non sostanziale” della modifica richiesta e in relazione ad eventuali prescrizioni da inserire nella modifica autorizzativa richiesta.

Con nota del 10 febbraio 2022, ARPA Lazio ha qualificato l’intervento come integrante una modifica sostanziale, in particolare rilevando che: “-non è noto il quantitativo massimo di CSS-C per il quale si richiede l’autorizzazione, né l’effettiva percentuale di sostituzione del combustibile tradizionale;

– la modifica proposta comporta una variazione del quadro emissivo autorizzato, in quanto risultano attivate due nuovi sorgenti emissive;

– l’introduzione del CSS-C comporta un aumento del traffico indotto dalla cementeria di circa 3 viaggi al giorno, corrispondente all’1 % del totale dei viaggi in ingresso allo stabilimento di Guidonia;

– occorre altresì considerare l’eventuale produzione di emissioni che provochino un impatto olfattivo, tanto è vero che anche le BATC prevedono la possibilità di utilizzare una o una combinazione di tecniche che implichino oltre ai filtri a tessuto anche lavaggi a umido rispetto ai residui prodotti durante il funzionamento dell’impianto si segnala che il Gestore non fornisce alcuna informazione al riguardo;

– con riferimento alle emissioni di acque reflue … si segnala all’AC la necessità di rivalutare se l’attuale modalità di gestione delle acque meteoriche rimanga congrua anche a seguito dell’attivazione delle nuove attività, rispetto al possibile incremento della contaminazione delle acque meteoriche; -l’utilizzo di CSS-C al forno di cottura n. 1 comporta l’applicazione dei limiti emissivi per il coincenerimento previsti dal Titolo III bis alla Parte IV del D.Lgs. n. 152/06. Ciò implica la necessità di rivalutare i limiti prescritti nell’AIA vigente rispetto a quanto previsto nell’Allegato II al Titolo III bis del citato decreto legislativo;

– per quanto riguarda infine il sistema di monitoraggio in continuo, per il quale il Gestore dichiara che l’assicurazione di qualità dei sistemi automatici di misurazione previsti al punto di emissione E11 e la loro taratura sono eseguiti in conformità alla norma EN 14181, si segnala la necessità di verificare l’eventuale aggiornamento del relativo Manuale SME, in conseguenza dell’aggiornamento dei parametri sottoposti a monitoraggio in continuo nonché di un adeguamento dei valori limite”.

Con successiva nota prot. n. 189149 del 24 febbraio 2022, la Regione Lazio ha comunicato alla società Buzzi che la sua richiesta di modifica va qualificata come modifica sostanziale e, pertanto, le ha imposto, ai sensi dell’art. 29-nonies comma 2 del d.lgs. n. 152/2006, di procedere con “una nuova domanda di autorizzazione corredata da una relazione contenente un aggiornamento delle informazioni di cui all’articolo 29-ter, commi 1 e 2.”

  1. La società ha impugnato dinanzi al T.AR per il Lazio quest’ultimo provvedimento e il presupposto parere rilasciato da Arpa Lazio, mediante un ricorso articolato nei tre seguenti motivi:
  2. I) Violazione e falsa applicazione dell’art. 35, comma 3, del decreto semplificazioni. Violazione e falsa applicazione dell’art. 5, comma 1, lett. l) e l-bis) del d.lgs. 152/2006. Violazione del d.m. 14 febbraio 2013, n. 22, c.d. decreto Clini. Violazione del divieto di non aggravamento del procedimento e dell’art. 1, comma 2 della l. 241/1990. Eccesso di potere per difetto di istruttoria e di motivazione, nonché per travisamento dei presupposti di fatto e di diritto;

II)Violazione e falsa applicazione dell’art. 35, comma 3, del decreto semplificazioni, sotto altro profilo;

III)Violazione e falsa applicazione dell’art. 35, comma 3 del decreto semplificazioni. Violazione e falsa applicazione dell’art. 3 della legge 241/1990. Eccesso di potere per travisamento dei fatti e dei presupposti di fatto e di diritto. Eccesso di potere per difetto di istruttoria e di motivazione. eccesso di potere per violazione dei principi di non aggravamento, ragionevolezza e proporzionalità. Eccesso di potere per sviamento dalla causa tipica.

  1. Il T.ar. per il Lazio ha rigettato il ricorso.
  2. La Società ha proposto appello (articolato in tre motivi di gravame), che, nella sostanza, reitera le censure prospettate nel giudizio di primo grado.
  3. Si sono costituite nel giudizio la Regione Lazio e Arpa Lazio chiedendo il rigetto dell’appello.
  4. In vista dell’udienza del’8 giugno 2023 le parti hanno, con memorie e repliche, ulteriormente specificato e argomentato le rispettive posizioni giuridiche.
  5. Alla pubblica udienza dell’8 giugno 2023 la causa è stata trattenuta in decisione.

DIRITTO

  1. La questione posta all’esame della Sezione attiene alla legittimità del provvedimento con il quale la Ragione Lazio ha imposto alla società appellante di procedere, ai sensi dell’art. 29-nonies comma 2 del d.lgs. n. 152/2006, a una nuova domanda di autorizzazione ambientale in relazione alla realizzazione di una nuova unità impiantistica per il ricevimento, lo stoccaggio e il dosaggio del CSS-C, meglio descritta nella parte in fatto, in ragione del ritenuto carattere “sostanziale” della modifica di carattere sostanziale.
  2. L’appello è infondato.
  3. Con un primo mezzo di gravame l’appellante ha dedotto l’erronea interpretazione, da parte della sentenza impugnata, degli artt. 35, comma 3 del d.l. 77/2021 e 29-nonies del d. lgs. 152/2006.

Ad avviso dell’appellante, l’art. 35, comma 3, D.L. 77/2021, ha stabilito in modo chiaro i presupposti in presenza dei quali il CSS-C (quando conforme ai requisiti dell’art. 13 del D.M. 22/2013 e quindi da qualificarsi come “end of waste”) può essere introdotto nel ciclo produttivo in sostituzione dei combustibili fossili mediante una modifica non sostanziale dell’AIA.

In tale prospettiva, il CSS-C, quando conforme alle previsioni del citato D.M. 22/2013, perderebbe la caratteristica di rifiuto divenendo un “end of wastecome tale insuscettibile di arrecare impatti negativi sull’ambiente o sulla salute umana.

In particolare, l’art 35, comma 3, D.L 77/2021, ha previsto che l’intervento di modifica sia sottoposto alla disciplina delle modifiche non sostanziali e comporti il mero aggiornamento del titolo autorizzativo quando, nel rispetto dei limiti di emissione per coincenerimento dei rifiuti, l’utilizzo del CSS-C:

– avviene in impianti che non sono autorizzati allo svolgimento delle operazioni R1 (ossia, quando si tratta di impianti che non sono autorizzati al recupero di rifiuti mediante combustione per la produzione di energia);

– non comporta un incremento della capacità produttiva autorizzata.

Nell’ottica in esame, l’art 35, comma 3, D.L. 77/2021, al ricorrere dei due citati presupposti, avrebbe già svolto ex ante in via generalizzata una valutazione circa l’impossibilità che l’utilizzo del combustibile-prodotto in questione determini impatti significativi e negativi sull’ambiente e sulla salute umana, così escludendo che esso sia riconducibile alla definizione di modifica sostanziale (e, pertanto, qualificandolo ex lege come “modifica non sostanziale”).

Dal che discenderebbe l’erroneità della sentenza impugnata che avrebbe di fatto sovvertito il rapporto tra regola ed eccezione stabilito dall’art. 35, comma 3, del D.L. 77/2021, ritenendo che – pur in presenza dei presupposti dell’art. 35, comma 3, del D.L. 77/2021 – sarebbe sufficiente un qualsiasi dubbio da parte dell’Amministrazione per imporre l’applicazione del procedimento di modifica sostanziale.

Con il secondo mezzo di gravame l’appellante deduce la violazione dell’art. 35, comma 3 del D.L. 77/2021 e l’eccesso di potere per difetto di istruttoria e travisamento dei fatti.

La decisione di primo grado sarebbe illegittima perché non si è avveduta che la Regione ha imposto l’applicazione della modifica sostanziale senza che vi sia, in realtà, alcun elemento che consenta di ritenere che la combustione del CSS-C possa produrre impatti negativi e significativi sull’ambiente e sulla salute umana, ulteriori o maggiori rispetto alla combustione di fonti fossili attualmente autorizzata dall’AIA.

Ciò in quanto, secondo l’appellante, il parere istruttorio di ARPA Lazio non ha affatto qualificato l’intervento in questione come modifica sostanziale, mentre ha invece indicato alla Regione quali profili meritassero di essere verificati nell’ambito dell’aggiornamento dell’AIA che consegue alla modifica non sostanziale dell’Impianto.

3.1. I primi due motivi possono essere esaminati congiuntamente in ragione della loro connessione oggettiva.

Essi non sono fondati.

L’autorizzazione integrata ambientale unifica in un unico titolo gli assensi necessari per l’esercizio di un impianto (cd. “installazione”), principalmente nei settori energetici, industriali, chimici e di gestione dei rifiuti, ai fini del controllo delle emissioni inquinanti nell’aria, nell’acqua e nel suolo e della produzione dei rifiuti, ed è disciplinata negli artt. 29 bis e seguenti del codice dell’ambiente.

Essa è stata introdotta nel nostro ordinamento in attuazione della direttiva 96/61/CE relativa alla prevenzione e riduzione integrate dell’inquinamento.

L’autorizzazione integrata ambientale è un provvedimento che sostituisce, con un unico titolo abilitativo, tutti i numerosi titoli che erano precedentemente necessari per fa funzionare un impianto industriale inquinante, assicurando così efficacia, efficienza, speditezza ed economicità all’azione amministrativa nel giusto contemperamento degli interessi pubblici e privati in gioco, e incide quindi sugli aspetti gestionali dell’impianto (cfr. Cons. St., Sez. V, 17 ottobre 2012, n. 5292 e 26 gennaio 2015, n. 313; Sez. IV, 18 luglio 2017, n. 3559; Sez. VI, 19 marzo, n. 1541;Cons. St., Sez. IV, 12 aprile 2021, n. 2949).

Nel corso dell’esercizio di un impianto industriale sono frequenti i mutamenti e le variazioni di funzionamento definite all’art. 5, c. 1, lett 1) del codice dell’ambiente come modifiche aventi ad oggetto «un piano, programma, impianto o progetto approvato, compresi, nel caso degli impianti e dei progetti, le variazioni delle loro caratteristiche o del loro funzionamento, ovvero un loro potenziamento, che possano produrre effetti sull’ambiente».

Non tutte le modifiche sono sottoposte alla stessa disciplina, essendo sottoponibili a nuova autorizzazione le sole modifiche sostanziali.

L’art. 29 nonies, D.lgs. n. 152/2006, dispone che il gestore comunica all’autorità competente le modifiche progettate dell’impianto, come definite dall’art. 5, comma 1, lettera l) e che l’autorità competente, ove lo ritenga necessario, aggiorna l’autorizzazione integrata ambientale o le relative condizioni, oppure, se rileva che le modifiche progettate sono sostanziali, ai sensi dell’art. 5, comma 1, lettera l-bis), ne dà notizia al gestore entro sessanta giorni dal ricevimento della comunicazione, ai fini degli adempimenti di cui al comma 2 dell’art. 29 nonies del d.lgs. n. 152/2006.

Decorso tale termine il gestore può procedere alla realizzazione delle modifiche comunicate.

Nel caso, invece, di modifiche ritenute “sostanziali”, il gestore deve inviare all’autorità competente una nuova domanda di autorizzazione corredata da una relazione contenente un aggiornamento delle informazioni di cui all’articolo 29-ter, commi 1 e 2.

Secondo il costante orientamento del Consiglio di Stato, da cui il Collegio non intende discostarsi, le valutazioni sottese alla rilascio dell’autorizzazione integrata ambientale e alle relative modifiche implicano il ricorso a nozioni tecnico scientifiche in materia ambientale, connotate da un’ampia discrezionalità in merito ai possibili effetti ambientali o sanitari della modifica proposta, sindacabili dalla giurisdizione amministrativa di legittimità nei soli casi di esiti abnormi o manifestamente illogici (cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, 5 settembre 2022, n.7706).

Ne discende che la definizione di modifica sostanziale, per sua natura, comporta valutazioni discrezionali, da parte dell’amministrazione, soprattutto in relazione all’interpretazione e applicazione della locuzione «effetti negativi e significativi sull’ambiente».

Nella prassi la distinzione tra le due categorie di modifiche è costante oggetto di dibattito, ragione per la quale, in diverse occasioni, linee guida regionali hanno stabilito — soprattutto in materia di rifiuti — con valutazione ex ante, in quali casi la modifica debba ritenersi comunque sostanziale (cfr. Consiglio di Stato. Sez IV, n. 5766/2020), sollevando l’amministrazione procedente da un onere motivazionale che comunque, diversamente, deve ritenersi esistente.

L’art. 35, comma 3, D.L. n. 77/2021, dispone che:

Gli interventi di sostituzione dei combustibili tradizionali con CSS-combustibile conforme ai requisiti di cui all’articolo 13 del decreto del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare n. 22 del 2013 in impianti o installazioni non autorizzati allo svolgimento delle operazioni R1, che non comportino un incremento della capacità produttiva autorizzata, non costituiscono una modifica sostanziale ai sensi dell’ articolo 5, comma 1, lettera l-bis), del decreto legislativo n. 152 del 2006 e dell’articolo 2, comma 1, lettera g), del decreto del Presidente della Repubblica n. 59 del 2013, o variante sostanziale ai sensi degli articoli 208, comma 19, e 214, 214-bis, 214-ter, 215 e 216 del decreto legislativo n. 152 del 2006 e richiedono il solo aggiornamento del titolo autorizzatorio, nel rispetto dei limiti di emissione per coincenerimento dei rifiuti, da comunicare all’autorità competente quarantacinque giorni prima dell’avvio della modifica. Nel caso in cui quest’ultima non si esprima entro quarantacinque giorni dalla comunicazione, il soggetto proponente può procedere all’avvio della modifica. L’autorità competente, se rileva che la modifica comunicata sia una modifica sostanziale che presuppone il rilascio di un titolo autorizzativo, nei trenta giorni successivi alla comunicazione medesima, ordina al gestore di presentare una domanda di nuova autorizzazione. La modifica comunicata non può essere eseguita fino al rilascio della nuova autorizzazione”.

Tale disposizione, ispirandosi ad una logica acceleratoria e semplificatoria, eccezionalmente consente a soggetti non autorizzati al recupero e trattamento dei rifiuti, nel caso di progetti che comportano l’utilizzazione di CSS-C in sostituzione di combustibili fossili tradizionali, di formulare domanda di aggiornamento dell’AIA in essere, accelerandone contestualmente la relativa tempistica procedimentale.

Essa stabilisce in maniera chiara anche quali sono i limiti di operatività di tale semplificatoria procedura di autorizzazione, riconducibili al fatto che gli interventi di sostituzione dei combustibili tradizionali con CSS-combustibile non comportino un incremento della capacità produttiva autorizzata, e che rispettino i limiti di emissione previsti per gli impianti di co-incenerimento il limite di operatività della stessa.

Quando, come è accaduto nella fattispecie in esame, emergono anche solo fondati dubbi, in ordine all’effettiva sussistenza di una o entrambe le predette condizioni di ammissibilità delle modifiche non sostanziali, l’Amministrazione ha il potere di ordinare la presentazione di una nuova istanza di autorizzazione con attivazione del procedimento ordinario di modifica sostanziale ex art. 29 nonies del d.lgs. n. 152/2006.

Né a tal fine è rilevante, come invece afferma l’appellante nella seconda parte del secondo motivo di appello, il fatto che Arpa non abbia espressamente indicato nel suo parere che le modifiche in esame implichino una modifica sostanziale.

La prospettazione dell’ appellante incontra, infatti, l’obiezione di fondo per cui la fase della “valutazione del rischio” è caratterizzata prevalentemente (anche se non esclusivamente) dalla “scientificità” della valutazione, demandata pertanto ad un organo tecnico, mentre, le successive fase della gestione del rischio e della decisione si connotano prevalentemente (anche se non esclusivamente) per la loro “politicità” e sono, pertanto, affidate ad un soggetto “ politico” in quanto implicanti decisioni ampiamente discrezionali.

Peraltro, venendo nel caso di specie in rilievo procedimenti in materia ambientale, le pur apprezzabili esigenze di economia circolare, riconducibili alla fattispecie di cui al comma 3 dell’art. 35 del d.l. n. 77/2021, non possono in alcun caso giustificare alcun automatismo circa la richiesta di aggiornamento dell’AIA, permanendo in capo all’Amministrazione un’ampia discrezionalità tecnica riguardo alle valutazioni di operatività della nuova disciplina.

Ne consegue che anche il solo ragionevole e motivato dubbio di compatibilità del progetto alle condizioni astrattamente idonee all’aggiornamento dell’AIA legittima, in forza del principio di precauzione, l’imposizione da parte della P.A di un nuovo procedimento autorizzatorio.

Si spiega, del resto, in tale ottica la ragione per cui l’art. 35 comma 3, D.L. n. 77/2021, pur essendo ispirato dalle predette esigenze di semplificazione, non ha espressamente qualificato come perentorio il termine entro il quale l’Amministrazione competente è tenuta ad esprimersi circa la qualificazione del progetto come “modifica sostanziale”.

Da ciò discende che, contrariamente a quanto ritenuto dalla parte appellante, allo spirare del termine di 30 giorni previsto dal d.l. n. 77/2021 non si consuma il potere provvedimentale.

Poste le anzidette coordinate ermeneutiche, nel caso di specie non emerge la prova che l’impianto sia stato effettivamente adeguato al rispetto delle prescrizioni previste per gli impianti di co-incenerimento (Titolo III-bis della Parte IV del d.lgs. n. 152/2006), condizione necessariamente prevista dal d.m. 22/2013 (richiamato dall’art. 35 comma 3 del d.l. n. 77/2021) per garantire un elevato grado di tutela dell’ambiente e della salute umana ai fini dell’utilizzo del Css-Combustibile.

Infatti, come correttamente evidenziato da Arpa, con valutazioni non adeguatamente contraddette da evidenze di segno contrario, non è noto il quantitativo massimo di CSS-C per il quale si richiede l’autorizzazione, né l’effettiva percentuale di sostituzione del combustibile tradizionale.

La modifica progettuale proposta, inoltre, comporta l’incremento delle tonnellate di combustibile in ingresso con conseguente aumento degli automezzi che conferiranno all’impianto di Guidonia (circa 3 automezzi in più al giorno), con conseguente ulteriore implementazione delle emissioni in atmosfera.

Essa implica anche una variazione del quadro emissivo autorizzato, in quanto risultano attivate due nuovi sorgenti emissive.

Inoltre, Arpa ha espresso ulteriori perplessità in merito alle emissioni odorigene provenienti dagli impianti di ricezione e dosaggio, alla valutazione dei residui prodotti durante il funzionamento dell’impianto, all’eventuale impatto della modifica rispetto alla possibile contaminazione delle acque meteoriche e di dilavamento del piazzale, nonché alla capacità di stoccaggio delle acque piovane contaminate.

Tutti questi elementi, quindi, sono sufficienti, secondo una valutazione di ragionevolezza, a far ritenere alterati i presupposti sulla base dei quali è stata concessa l’originaria autorizzazione; sicché non può ritenersi arbitraria, né irragionevole, la decisione dell’Amministrazione di imporre la procedura ordinaria di modifica sostanziale ai sensi dell’art. 29 nonies del d.lgs. n. 152/2006.

Va, inoltre, a tal riguardo considerato che la giurisprudenza di questa Sezione è costante nell’affermare che «nel rendere il giudizio di valutazione di impatto ambientale, l’amministrazione esercita una amplissima discrezionalità che non si esaurisce in un mero giudizio tecnico, in quanto tale suscettibile di verificazione tout court sulla base di oggettivi criteri di misurazione ma presenta al contempo profili particolarmente intensi di discrezionalità amministrativa e istituzionale in relazione all’apprezzamento degli interessi pubblici e privati coinvolti» (Cons. Stato, sez. IV,14 marzo 2022, n. 1761).

Il sindacato giudiziale, al fine di assicurare il rispetto del principio costituzionale di separazione dei poteri, è consentito soltanto quando risulti violato il principio di ragionevolezza.

Nella fattispecie in esame, l’appellante non ha dedotto elementi idonei a dimostrare tale violazione, in quanto le censure prospettate sono censure di merito finalizzate a contestare una scelta tecnica che, al più, può essere opinabile ma non anche, per le ragioni evidenziate, irragionevole.

  1. Con il terzo mezzo di gravame si deduce la violazione del principio di precauzione, e degli artt. 301, D. lgs. 152/2006, e 191, TFUE.

Erroneo sarebbe, ad avviso della parte appellante, il riferimento, fatto dalla sentenza appellata, al principio di precauzione, al fine di argomentare la necessità di imporre un nuovo procedimento autorizzatorio, anche quando vi siano meri dubbi sulla “compatibilità del progetto alle condizioni astrattamente idonee all’aggiornamento dell’AIA”.

L’erroneità risiederebbe nella circostanza per cui, nel caso di che trattasi, non sussisterebbero i presupposti, primo fra tutti quello dell’incertezza scientifica, in presenza dei quali è possibile, secondo quanto chiarito dalla Comunicazione della Commissione Europea del 2 febbraio 2000 e dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, fare ricorso al principio di precauzione.

4.1. Il motivo è infondato.

Il principio di precauzione consiste, come noto, in un criterio di gestione del rischio in condizioni di incertezza scientifica.

Esso risponde, dunque, alla necessità di fronteggiare e/o gestire i c.d. “rischi incerti”.

Muovendo da tale preliminare considerazione, è possibile coglierne il principale tratto distintivo rispetto all’idea di “prevenzione”. Mentre, infatti, la prevenzione può entrare in gioco solo a fronte di “rischi certi”, ossia in presenza «di rischi scientificamente accertati e dimostrabili, ovverosia in presenza di rischi noti, misurabili e controllabili», la precauzione, al contrario, trova il proprio campo di applicazione allorché un determinato rischio risulti ancora caratterizzato da margini più o meno ampi di incertezza scientifica circa le sue cause o i suoi effetti.

Ne deriva che al concetto di precauzione è connaturata una intrinseca funzione di anticipazione della soglia di intervento dell’azione preventiva.

L’atto di nascita del principio di precauzione, sul piano del diritto positivo, viene comunemente individuato nella Dichiarazione di Rio de Janeiro sull’ambiente e lo sviluppo del 14 giugno 1992, all’interno della quale, nell’ambito del principio n. 15, è stabilito che “Al fine di proteggere l’ambiente, gli Stati debbono applicare intensamente misure di precauzione a seconda delle loro capacità. In caso di rischio di danni gravi o irreversibili, la mancanza di un’assoluta certezza scientifica non deve costituire un pretesto per rimandare l’adozione di misure efficienti in rapporto al loro costo volte a prevenire il degrado ambientale».

Il principio è ripreso in termini analoghi anche nel preambolo della Convenzione sulla diversità biologica (1992) e nell’art. 3 della Convenzione sui cambiamenti climatici (1992), nonché nella Convenzione di Parigi per la protezione dell’ambiente marino per l’Atlantico Nord-Orientale (settembre 1992).

Nello stesso anno della Dichiarazione di Rio, il principio di precauzione ha avuto ingresso anche nell’ordinamento comunitario europeo, per il tramite del trattato di Maastricht, il quale lo introdusse all’interno dell’art. 130R (poi art. 174), par. 2, del trattato CE tra i princìpi sui quali avrebbe dovuto essere fondata l’azione (poi la politica) delle istituzioni comunitarie nel settore della tutela dell’ambiente. Oggi il principio si trova menzionato, nei medesimi termini e nel medesimo contesto, all’interno del par. 2 dell’art. 191 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea. Grazie all’elaborazione della giurisprudenza dell’Unione Europea, il principio di precauzione ha trovato una esplicita qualificazione giuridica quale “principio generale del diritto comunitario”.

Il fondamento concettuale della logica precauzionale, come osservato in dottrina, può essere ricondotto al principio del cosiddetto maximin, in base al quale, quando si tratta di assumere una decisione in condizioni di incertezza, le scelte devono essere valutate tenendo conto del peggior scenario possibile in termini di possibili conseguenze.

La mancanza di certezza scientifica in ordine alle conseguenze dannose di determinati comportamenti o attività non può giustificare il rinvio di un’azione preventiva adeguata all’entità dei possibili rischi.

Da ciò consegue che, in nome dell’idea di precauzione, l’intervento preventivo non può attendere l’inconfutabile prova scientifica degli effetti dannosi, ma deve essere predisposto sulla base di attendibili valutazioni di semplice possibilità/probabilità del rischio, sulla base delle conoscenze scientifiche e tecniche “attualmente” e “progressivamente” disponibili.

Nella prima pronuncia significativa, sul tema di che trattasi (c.d. sentenza Artegodan  Tribunale CE, Seconda Sezione ampliata, 26 novembre 2002, in cause riunite T-74/00 e altre, Artegodan GmbH e aa. c. Commissione delle Comunità europee, punto 184), il giudice europeo ha affermato che il principio di precauzione costituisce «il principio generale del diritto comunitario che fa obbligo alle autorità competenti di adottare provvedimenti appropriati al fine di prevenire taluni rischi potenziali per la sanità pubblica, per la sicurezza e per l’ambiente, facendo prevalere le esigenze connesse alla protezione di tali interessi sugli interessi economici».

Quanto ai presupposti di fatto per la concreta operatività del principio in questione, la definizione citata si limita a menzionare l’esigenza di «prevenire taluni rischi potenziali» senza ulteriori precisazioni. Nelle successive pronunce giurisprudenziali, tuttavia, i giudici europei hanno avuto modo di individuare gli elementi da considerare decisivi per fondare correttamente l’applicazione del principio di precauzione, affermando a chiare lettere, innanzitutto, che «la valutazione del rischio non può basarsi su considerazioni puramente ipotetiche» e che deve sussistere comunque la «probabilità di un danno reale» (Così Tribunale CE, Seconda Sezione ampliata, 26 novembre 2002, in cause riunite T-74/00 e altre, Artegodan GmbH e aa.c.Commissione delle Comunità europee, punto 184).

Proprio in relazione ai connotati di fatto che deve assumere il rischio da fronteggiare, risultano estremamente significativi i passaggi argomentativi della c.d. “sentenza Pfizer”( Cfr. Tribunale CE, Sez. III, 11 settembre 2002, in causa T-13/99, Pfizer Animal Health SA c. Consiglio dell’Unione europea)nella quale si legge : «Nel contesto dell’applicazione del principio di precauzione – che è per definizione un contesto d’incertezza scientifica – non si può esigere che una valutazione dei rischi fornisca obbligatoriamente alle istituzioni comunitarie prove scientifiche decisive sulla realtà del rischio e sulla gravità dei potenziali effetti nocivi in caso di avveramento di tale rischio. (..) Tuttavia, (..) una misura preventiva non può essere validamente motivata con un approccio puramente ipotetico del rischio, fondato su semplici supposizioni non ancora accertate scientificamente. (..) Dal principio di precauzione, come interpretato dal giudice comunitario, deriva, al contrario, che una misura preventiva può essere adottata esclusivamente qualora il rischio, senza che la sua esistenza e la sua portata siano state dimostrate pienamente” da dati scientifici concludenti, appaia nondimeno sufficientemente documentato sulla base dei dati scientifici disponibili al momento dell’adozione di tale misura. (..) Il principio di precauzione può, dunque, essere applicato solamente a situazioni in cui il rischio, in particolare per la salute umana, pur non essendo fondato su semplici ipotesi non provate scientificamente, non ha ancora potuto essere pienamente dimostrato. In un tale contesto, la nozione di “rischio” corrisponde dunque ad una funzione della probabilità di effetti nocivi per il bene protetto dall’ordinamento giuridico cagionati dall’impiego di un prodotto o di un processo. La nozione di pericolo è, in tale ambito, usata comunemente in un’accezione più ampia e definisce ogni prodotto o processo che possa avere un effetto negativo per la salute umana (..). Di conseguenza, in un contesto come quello del caso di specie, la valutazione dei rischi ha ad oggetto la stima del grado di probabilità che un determinato prodotto o processo provochi effetti nocivi sulla salute umana e della gravità di tali potenziali effetti».

A conclusioni sostanzialmente analoghe è giunta la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato (cfr. Consiglio di Stato, Sezione Terza, n. 6655/2019).

Nel campo specifico dell’azione amministrativa a tutela dell’ambiente, l’attuazione del principio di precauzione è garantita dall’art. 301 del d.lgs. n. 152 del 2006 espressamente rubricata «Attuazione del principio di precauzione», nella quale si fa riferimento all’«alto livello di protezione» che «deve essere assicurato» nei casi «di pericoli, anche solo potenziali, per la salute umana e per l’ambiente», precisandosi che l’applicazione di tale principio «concerne il rischio che comunque possa essere individuato a seguito di una preliminare valutazione scientifica obiettiva».

Sempre nel d.lgs. n. 152 del 2006, all’art. 3-ter, si stabilisce, in via generale, che «la tutela dell’ambiente e degli ecosistemi naturali e del patrimonio culturale deve essere garantita da tutti gli enti pubblici e privati e dalle persone fisiche e giuridiche pubbliche o private, mediante una adeguata azione che sia informata ai principi della precauzione, dell’azione preventiva, della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all’ambiente, nonché al principio “chi inquina paga” che, ai sensi dell’articolo 174, comma 2, del Trattato delle unioni europee, regolano la politica della comunità in materia ambientale».

La valutazione scientifica del rischio deve essere preceduta – logicamente e cronologicamente – dall’«identificazione di effetti potenzialmente negativi derivanti da un fenomeno» e comprende, essenzialmente, quattro componenti: l’identificazione del pericolo, la caratterizzazione del pericolo, la valutazione dell’esposizione e la caratterizzazione del rischio. Essa consiste, dunque, in un processo scientifico che deve necessariamente spettare a esperti scientifici, cioè agli scienziati.

La valutazione scientifica deve fondarsi su «dati scientifici affidabili» e su un ragionamento logico «che porti ad una conclusione, la quale esprima la possibilità del verificarsi e l’eventuale gravità del pericolo sull’ambiente o sulla salute di una popolazione data, compresa la portata dei possibili danni, la persistenza, la reversibilità e gli effetti ritardati». Il principio di precauzione consente, quindi, di adottare, sulla base di conoscenze scientifiche ancora lacunose, misure di protezione che possono andare a ledere posizioni giuridiche soggettive, sia pure nel rispetto del principio di proporzionalità inteso nella sua triplice dimensione di idoneità, necessarietà e proporzionalità in senso stretto (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 27 dicembre 2013, n. 6250).

Se, dunque, la fase della valutazione del rischio è caratterizzata prevalentemente (anche se non esclusivamente) dalla “scientificità”, la fase di gestione del rischio si connota altrettanto prevalentemente (anche se non esclusivamente) per la sua “politicità”.

Sulla base delle predette coordinate ermeneutiche si ricava che anche il solo ragionevole e motivato dubbio di compatibilità del progetto alle condizioni che astrattamente consentirebbero il mero aggiornamento dell’AIA, legittima, in forza del principio di precauzione, l’imposizione da parte della P.A di un nuovo procedimento autorizzatorio.

Alla luce delle risultanze istruttorie acquisite al presente giudizio, di cui si è dato conto in precedenza, appare pertanto immune da rilievi la decisione con cui l’Amministrazione ha ordinato la presentazione di una nuova istanza di autorizzazione, con attivazione del procedimento ordinario di modifica sostanziale ex art. 29 nonies del d.lgs. n. 152/2006.

  1. Con il quarto mezzo di gravame l’appellante lamenta la violazione dell’art. 35, D.L. 77/2021 e dell’art. 5, D. lgs. 152/2006, e l’eccesso di potere per disparità di trattamento e ingiustizia manifesta.

Con quest’ultimo motivo di appello si contesta preliminarmente la decisione gravata nelle parti in cui ha ritenuto che, in sede di aggiornamento dell’AIA ai sensi dell’art. 35 del D.L. 77/2021, sia preclusa la possibilità di prevedere prescrizioni, in quanto queste ultime non sarebbero previste dalla normativa vigente e, comunque, sarebbero compatibili con i principi generali soltanto qualora non esistano dubbi in ordine alla complessiva compatibilità ambientale del progetto, potendosi risolvere, nel caso contrario, in una pretermissione del giudizio di competenza dell’Amministrazione.

E ciò in quanto l’art. 35, comma 3, del D.L. 77/2021 non escluderebbe affatto la possibilità che le Amministrazioni introducano prescrizioni, le quali costituiscono un elemento del tutto connaturato agli atti autorizzativi in materia ambientale, tanto da essere menzionate nell’art. 5 del D. Lgs. 152/2006 che, nel dettare le definizioni utilizzate all’interno del TUA, prevede che l’autorizzazione integrata ambientale imponga condizioni all’operatore.

5.1. La censura non è fondata.

Come già ricordato, il sindacato giudiziale nella materia in esame, al fine di assicurare il rispetto del principio costituzionale di separazione dei poteri, è consentito soltanto quando risulti violato il principio di ragionevolezza.

Con la sub-censura in esame, l’appellante non ha dedotto elementi idonei a dimostrare che la mancata previsione di prescrizioni sia nel caso di specie irragionevole, quanto piuttosto censure di merito finalizzate a contestare una scelta tecnica che, al più, può essere opinabile ma non anche, per le ragioni evidenziate, irragionevole.

Nella fattispecie in disamina, l’appellante non ha dedotto elementi idonei a dimostrare tale violazione, in quanto le censure prospettate sono censure di merito finalizzate a contestare una scelta tecnica che, al più, può essere opinabile ma non anche, per le ragioni evidenziate, irragionevole.

5.2. Con un’ulteriore sub-censura si contesta la sentenza appellata nella parte in cui in cui ha affermato che lo spirare del termine di 30 giorni previsto dall’art. 35, comma 3, D.L. 77/2021 non determinerebbe la consumazione del potere della Regione di pronunciarsi sul carattere sostanziale o meno della modifica in quanto non conforme al disposto normativo.

5.3. Tale sub-censura non è fondata.

Come già si è avuto modo di ricordare, l’art. 35 comma 3, D.L. n. 77/2021, pur essendo ispirato da evidenti esigenze di semplificazione e di accelerazione, non ha espressamente qualificato come perentorio il termine entro il quale l’Amministrazione competente è tenuta ad esprimersi circa la qualificazione del progetto come “modifica sostanziale”.

Del resto, secondo un consolidato orientamento interpretativo, il protrarsi del procedimento oltre i termini predeterminati non comporta la decadenza dal potere di provvedere in capo all’amministrazione, né il provvedimento tardivamente emanato può essere considerato di per sé illegittimo.

Né a diverse conclusioni è possibile giungere valorizzando il nuovo art. 8-bis L. 241/1990, il quale dispone che: “Le determinazioni relative ai provvedimenti, alle autorizzazioni, ai pareri, ai nulla osta e agli atti di assenso comunque denominati, adottate dopo la scadenza dei termini di cui agli articoli 14-bis, comma 2, lettera c), 17-bis, commi 1 e 3, 20, comma 1, ovvero successivamente all’ultima riunione di cui all’articolo 14-ter, comma 7, nonché i provvedimenti di divieto di prosecuzione dell’attività e di rimozione degli eventuali effetti, di cui all’articolo 19, commi 3 e 6-bis, primo periodo, adottati dopo la scadenza dei termini ivi previsti, sono inefficaci, fermo restando quanto previsto dall’articolo 21- nonies, ove ne ricorrano i presupposti e le condizioni”.

Quest’ultima disposizione normativa ha, infatti, previsto cinque nuove ipotesi di inefficacia del provvedimento tardivo, per lo più codificando fattispecie rispetto alle quali già prima della novella i termini potevano considerarsi perentori (e in ordine alle quali, semmai, la discussione atteneva al vizio che affliggeva il provvedimento tardivo).

Al di fuori delle ipotesi espressamene codificate, nelle quali non rientra la fattispecie qui in disamina, non è stato tuttavia derogato il principio consolidato secondo il quale contro la violazione dei termini di conclusione del procedimento il rimedio generale è quello dell’azione contra silentium.

Da ciò discende che, contrariamente a quanto ritenuto dalla parte appellante, allo spirare del termine di 30 giorni previsto dal D.L. n. 77/2021 non si consuma il potere provvedimentale, tenuto anche conto del fatto che il decreto \semplificazioni (così come del resto l’art. 29 nonies del d.lgs. n. 152/2006) non codifica alcun meccanismo di silenzio assenso.

5.4. Infine, con ulteriore sub-censura si assume l’erroneità della decisione impugnata e l’illegittimità del provvedimento impugnato in primo grado per il vizio di disparità di trattamento, e, segnatamente, per aver accolto irragionevolmente una soluzione che contrasta con quanto recenti sentenze del TAR per l’Umbria avrebbero stabilito in riferimento a progetti di modifica del tutto sovrapponibili a quella in esame, rispetto ai quali si è ritenuto sufficiente l’adozione della procedura relativa alle c.d. modifiche non sostanziali all’AIA.

5.5. La sub censura è inammissibile.

L’inammissibilità discende dal fatto che il vizio di disparità di trattamento è stato prospettato per la prima volta nel presente giudizio di appello e, come tale, è inammissibile costituendo un ampliamento del thema decidendum, non ammesso ai sensi dell’art. 104 c.p.a..

Costituisce, infatti, jus receptum che “Nell’ambito di un giudizio amministrativo d’appello la parte processuale non può introdurre nuove domande processuali, caratterizzate da un nuovo o mutato petitum oppure da una nuova o mutata causa petendi che determinino una nuova o mutata richiesta giudiziale ovvero nuovi o mutati fatti costitutivi della pretesa azionata.” (Cons. Stato, sez. VI, 29 gennaio 2020, n. 714).

Il motivo di appello è peraltro anche infondato perché, per un verso, è mancata la compiuta prova della identità delle situazioni di fatto poste in comparazione, e per altro verso, la circostanza per cui l’amministrazione, in altri similari casi, ha assunto condotte differenti non può implicare che la stessa debba continuare a tenere le medesime condotte quando le stesse non risultino, come nella specie, conformi al quadro normativo di riferimento.

  1. Per le ragioni esposte gli appelli principale e incidentali devono essere rigettati.
  2. In ragione della parziale novità delle questioni sottese al gravame in esame, il Collegio ravvisa eccezionali ragioni, exartt. 26 comma 1, c.p.a, e 92, c.p.c, per compensare integralmente le spese di giudizio.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto:

  1. a) rigetta l’appello;
  2. b) dichiara integralmente compensate tra tutte le parti costituite le spese del giudizio.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 8 giugno 2023 con l’intervento dei magistrati:

Vincenzo Lopilato, Presidente FF

Luca Lamberti, Consigliere

Francesco Gambato Spisani, Consigliere

Silvia Martino, Consigliere

Luigi Furno, Consigliere, Estensore

 
 
L’ESTENSORE IL PRESIDENTE
Luigi Furno Vincenzo Lopilato
 
 
 
 
 

IL SEGRETARIO