COP30 com’e’ andata ?

Pochi ne parla, perche’  siamo distratti dalle emergenze del giorno : forbice tra salari e prezzi, femminicidi, guerre atroci, criptovalute, capi di stato narcisisti. Ma il fiume sotterraneo che agita i nostri sonni e il fondo delle nostre coscienze e’ sempre il medesimo: il riscaldamento globale.

Per due settimane in novembre la citta’ di Belem ha ospitato  COP 30, la conferenza delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico. A 140 km dalla costa Atlantica, 100 km a sud dell’ Equatore, Belem e’ la porta di accesso al bacino del Rio delle Amazzoni. Fondata dai portoghesi nel 1616 e’ tuttora un grosso porto per le esportazioni della regione.

Due presidenti hanno dominato la scena: Lula, che ha scelto la  localita’ e  Trump, che ha scelto di non andarci. Due gesti simbolici hanno mostrato che una frattura irriducibile divide i due campi: quello dei governi e delle aziende consapevoli e responsabili, e quello delle aziende energivore e  petroliofere, e dei paesi produttori di combustibili fossili. I primi hanno provato a convincere i governi a sottoscrivere la roadmap per contenere il riscaldamento globale sotto 2.5 gradi entro il 2050. I secondi si sono rifiutati di prendere qualunque impegno.

Per spiegare cosa e’ successo nel novembre 2025 al COP30 di  Belem e’ utile ricordare come si e’ evoluto l’ imperialismo dal ventesimo al ventunesimo  secolo.

Tutti gli stati moderni sono imperi, poiche’ sono nati dall’ annessione dei territori limitrofi:   Anche oggi l’ imperialismo si manifesta con l’occupazione militare di terre confinanti (Ucraina, Taiwan, la linea gialla di Gaza -vedi figura 1-).

Tuttavia  non e’ quella la sua forma principale. Dopo la prima guerra mondiale l’ imperialismo ha preso la forma di accordi bilaterali che consentivano a un paese industriale di esportare in un mercato del Terzo Mondo, in cambio dell’ acquisto di materie prime. Lo scambio era palesemente iniquo, non solo per la differenza tra i salari, ma anche perche’ i paesi industriali non pagavano alcun prezzo per la spoliazione di risorse naturali e ambientali.   Dopo la seconda guerra mondiale fino al periodo della globalizzazione quella pratica, detta estrattivismo, e’ stata istituzionalizzata per mezzo di organismi  che regolano gli accordi di scambio tra tutti i paesi: essi furono dal 1947 il GATT (General Agreement on Tariffs and Trade), e dopo il 1995 il WTO (World Trade Organization). Mentre il GATT era un trattato internazionale e  le decisioni erano prese in base al peso economico di ciascuno stato (i paesi ricchi avevano piu’ potere decisionale),   gli accordi nel WTO (una organizzazione con 600 dipendenti) sono decisi a maggioranza semplice e sono vincolanti per tutti i paesi membri.

Ma la regola democratica non aveva fatto i conti con la globalizzazione. Infatti a partire dalla riunione WTO del 2001 (il Doha round) un gruppo di paesi emergenti (detto G20-T) guidati da Brasile e India ottenne di imporre prezzi minimi per i prodotti agricoli che essi esportavano. Occidente e Asia vedevano ciascuno un mercato potenziale nell’ altro, ma negli anni successivi fu l’ Asia a ricavare il  maggior beneficio, ottenendo che EU e USA abolissero le misure protezionistiche a favore della loro  agricoltura, e invadendo i mercati occidentali non solo con prodotti agricoli, ma anche con manufatti e servizi.

Dal 2011 ogni successivo presidente americano ha boicottato il WTO. Solo nel 2021 Biden tolse il veto alla nomina di un nuovo direttore, che aveva pero’  il compito di coordinare la gestione dei vaccini Covid su scala mondiale.

In quel decennio la crescita delle maggiori economie asiatiche e’ stata esponenziale. Con essa sono cresciuti consumi, redditi e l’ impiego di energia, derivata in gran parte dai combustibili fossili  (figura qui sotto: i numeri a fianco di ogni istogramma sono milioni di tonnellate di CO2 emesse nel 2022 ).

 

Quella crescita ha rimescolato le statistiche del commercio globale, e per conseguenza anche  dei consumi energetici.  Dal 2023 le emissioni di CO2 si sono stabilizzate in Cina e sono diminuite nella EU, mentre continuano ad aumentare nelle economie tuttora in sviluppo nel Sud del mondo. Quello sviluppo e’ ancora in gran parte alimentato con energia fossile, vuoi perche’ la riconversione su tecnologie sostenibili dovrebbe essere finanziata sottraendo risorse a consumi e investimenti,  vuoi perche’ le fonti fossili sono reperibili localmente o da paesi limitrofi (Russia, Iran, Arabia Saudita).

D’altra parte, l’ importazione di manufatti dall’ Asia ha  peggiorato la bilancia commerciale delle economie occidentali.  Quelle tra loro che posseggono giacimenti fossili (come USA, Gran Bretagna o  Norvegia)  considerano la loro esportazione un modo per riequilibrare gli scambi, pur sapendo che cio’ e’ il contrario di “fare la cosa giusta “.

Infatti il riscaldamento globale e’ sempre piu’ incalzante: per la prima volta nel 2025 la temperatura si e’ alzata di 1.5 gradi in media, anticipando di cinque anni la soglia che l’ accordo di Parigi aveva ipotizzato per il 2030. Grandi citta’ dell’ India sono soffocate dall’ inquinamento urbano e intere regioni in America del Sud, Africa e Sud Est dell’ Asia sono rovinate per secoli da pratiche estrattive selvagge e forme di riciclo altamente tossiche[i]. I due principali “polmoni” del nostro pianeta, la foresta amazzonica e il bacino del fiume Congo subiscono l’ attacco combinato della deforestazione e della riduzione di precipitazioni.  Cio’, riduce i volumi e  alza i prezzi delle derrate alimentari che le economie occidentali e la Cina importanto da qulle regioni.  [ii]

Forse proprio per questo, per la prima volta a Belen le dichiarazioni programmatiche hanno lasciato il posto alla  discussione di misure reali e concrete. Per esempio, una carbon tax che la EU imporra’ sulle importazioni a partire da gennaio 2026. Oppure la creazione di un fondo per la protezione della foresta tropicale, o ancora un piano per facilitare il commercio delle terre rare, indispensabili per produrre pannelli solari, mulini a vento, motori elettrici e batterie.

Purtroppo, dopo aspre dicussioni la conferenza si e’ chiusa senza un accordo vincolante.  L’ unico punto condiviso e’ stato l’ aumento dei finanziamenti che le economie mature forinranno ai paesi in via di sviluppo per accelerare la loro transizione alle fonti rinnovabili: 120 miliardi di dollari / anno a partire dal 2035. La promessa di qualche soldo in piu’ e’ stato tuttocio’ che i produttori di combustibili fossili hanno concesso.

Mancano invece nell’ accordo  un piano per ridurre la deforestazione (auspicato da 90 paesi) e  un accordo per l’estrazione sostenibile delle terre rare (bloccato da Cina e Russia). Inoltre l’ opposizione di Arabia Saudita, Russia e Iran (e l’ assenza degli USA) hanno impedito che l’ accordo contenesse una roadmap vincolante per ridurre l’ impiego di combustibili fossili (sostenuto da 80[iii] paesi): nel documento finale COP30 la roadmap non e’ un vincolo, bensi’ una scelta volontaria dei singoli governi.

Questo e’ un passo indietro rispetto a COP 28 , dove si era raggiunta l’ unanimita’ sull’ obiettivo  di zero crescita delle emissioni di gas serra per il 2050.  Tuttatvia anche allora era mancato un impegno specifico sulla eliminazione completa dei combustibili fossili.

Alcuni dei partecipanti a COP30 hanno sostenuto che mantenere il consenso sulla necessita’ di contrastare il riscaldamento globale fose piu’ importante che stabilire limiti precisi e scadenze vincolanti per l’ eliminazione dei combustibili  fossili. Altri hanno sostenuto il contrario: cioe’ che la tattica dilatoria dei produttori di petrolio  non fa che aumentare la concentrazione di  CO2 nell’ atmosfera, e la ricerca del consenso a tutti i costi non fa che rinviare una rottura prima o poi inevitabile, perche’ sempre piu’ urgente.

COP 30 ha avuto il merito di chiarire di fronte al mondo quali siano gli schieramenti nei campi opposti.

La divisione tra la maggioranza dei paesi che propone misure risolutive di buonsenso e una esigua minoranza che privilegia i propri interessi, spesso oligopolistici, e comunque contrari al bene comune, e’ un segno dei tempi. Le maggioranze cedono al ricatto -paventato dalle minoranze- di abbandonare il tavolo: e’ una pratica che si ripete in ambiti tra loro distanti, quali la tolleranza per il fascismo, la neutralita’ della magistratura, o la tutela dei diritti fondamentali, come quello alla salute. Le oligarchie spostano il limite di questo o quel tabu’ da  infrangere, approfittando della “buona fede” dei democratici che mirano  a mantenere il dialogo, il consenso e la rappresentanza multilaterale. Anche nel caso di COP 30  la giustificazione del compromesso  e’ stata di aver mantenuto la parvenza del multilateralismo non ostante l’ assenza di Trump. Ma fino che punto obiettivi che quasi tutti riconoscono inderogabili possono essere sacrificati sull’ altare di una simulata unanimita’?

Per rispondere occorre porsi altre due domande. La prima e’ : una volta consumata la rottura, chi sara’ il soggetto in grado di coalizzare le forze della transizione? La seconda domanda e’ in realta’ preliminare alla prima:  in quale campo si schierano gli interessi dei capitali, e piu’ in generale degli stati, nella fase globale dell’ imperialismo ?

Io credo che saranno i movimenti popolari di massa a condizionare gli stati, e gli stati saranno tanto piu ricettivi alla pressione popolare quanto piu’ avanzato sara’ il capitale che compone le loro economie. Al contrario, i settori economici industrialmente e finanziariamente piu’ concentrati saranno anche quelli piu’ ostili alla spinta dei movimenti popolari ; cosi’ come i maggiori consumatori di combustibili fossili, India, Cina, Brasile. (vedi FIGURA 2)

Il capitale estrattivista dipende dalla privatizzazione dei beni comuni, a casa propria o nelle periferie.  E’ questo il caso di grandi aziende agro-alimentari, industrie estrattive e minerarie, combustibili fossili, pesca oceanica, edilizia e grandi infrastrutture, gestione delle risorse idriche, e industrie energivore come intelligenza artificiale  e cemento. Quei settori hanno una innata allergia per qualunque rivendicazione sui beni comuni, perche’ ne sono i primi usurpatori.  Quei comparti industriali, e gli stati che ne sono dominati, sono marxianamente “arretrati” nella fase globale dell’ imperialismo.

La leadership puo’ venire solo dagli stati dove il capitale e’ impegnato in settori tecnologici di frontiera quali farmaceutico, biotech, energie sostenibili, auto elettriche, elettronica di consumo, ecc.

Se questa distinzione puo’ aiutare a riconoscere i governi dove la repressione e la censura dei movimenti popolari saranno piu’ contenute, (sempre che in queglii stati sia mantenuta una forma democratica di governo) non  basta pero’ a identificare il protagonista sociale del movimento e la sua leadership.

Un vantaggio che il capitale neocoloniale mantiene rispetto ai movimenti popolari e’ l’ internazionalita’. GATT e WTO erano strumenti creati per organizzare l’ estrattivismo a livello globale, ed e’ palese che i governi di destra mantengono anche oggi quel coordinamento internazionale. Tuttavia, come il WTO e’ stato rivoltato contro i suoi creatori dai paesi in via di sviluppo (G30-T), cosi’ puo’ avvenire nelle prossime conferenze per il clima, la pace, la lotta all’ imperialismo e altre istanze unificanti. Un coordinamento sovranazionale e’ indispensabile per far avanzare i movimenti popolari su quelle istanze. La vicenda della flottiglia per Gaza ha dimostrato anzi che puo’ funzionare da innesco. Da questo punto di vista, COP 30 e’ stata una occasione sprecata.

(questo articolo e’ stato pubblicato il 26 novembre 2025 sul sito di Micropolis https://www.micropolisumbria.it/  )

 

NOTE

[i] Alexander Clapp, Waste Wars, London, John Murray, 2025

[ii] Quasi 5 miliardi di tonnellate di cereali, circa 3 miliardi di tonnellate di frutta e verdura e quasi 1 miliardo di tonnellate di carne e prodotti lattiero-caseari sono stati distrutti in totale dai disastri climatici tra il 1991 e il 2023, secondo l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Alimentazione e l’Agricoltura. Quasi 100 miliardi di dollari all’anno sono stati persi, pari a circa il 4% del PIL globale proveniente dal settore agricolo nello stesso periodo, secondo il rapporto intitolato L’impatto dei disastri sull’agricoltura e la sicurezza alimentare 2025 fonte: https://openknowledge.fao.org/server/api/core/bitstreams/d18d9cb5-3e78-469a-b268-0aed1799d147/content/impact-of-disasters-on-agriculture-and-food-2025/key-messages.html

[iii] Circa 150 aziende e organizzazioni (tra cui IKEA, Saint Gobain, Unilever, Volvo e SAAB ) hanno firmato una lettera che invitava i  governi ad appoggiare la roadmap https://www.wemeanbusinesscoalition.org/cop30-statement-for-a-fossil-fuel-roadmap/